C’è sempre da imparare

Roberto Beccantini14 aprile 2021

Real-Chelsea e Paris SG-Manchester City: ecco qua le semifinali di Champions. La scorsa stagione furono Lione-Bayern e Lipsia-Paris. Una sola superstite, dunque: Parigi. Liverpool-Real 0-0 e Borussia Dortmund-Manchester City 1-2 non hanno toccato i picchi dei principi del Parco, ma sono state ugualmente istruttive.

Anfield vuoto sembra un paziente senza passamontagna: un agnellino. Zizou ha studiato in Italia, qua e là trapelava. Scottato dal lampo di Salah che già al 1’ avrebbe potuto terremotare la trama, ha preferito palleggiare attorno a Modric, Kroos e Casemiro, il lucchetto di casa Courtois. Non sono mancate le occasioni, ai Reds: e neppure, anche se in misura largamente più contenuta, ai blancos (palo di Benzema). Il 3-1 dell’andata è stato un muro, non un semplice confine. Klopp avrebbe avuto bisogno del miglior Firmino e del miglior Mané: li ha persi. Il risultato è quasi uno sberleffo del destino, un piccolo omaggio all’italianità sepolta e lontana.

Passiamo al Pep. Come ha disarmato Haaland? Con il pressing di gregge: un occhio al vicino, sempre, e via di recupero. Il gol di Bellingham (17 anni) aveva spinto i tedeschi oltre le proprie risorse. Ci hanno provato di catenaccio. L’assenza di un centravanti portava lo sciame guardiolesco a intasare tutto, persino sé stesso. Pochi tiri, se vogliamo, ma anche zero contropiedi (dei gialli). Possibile che Fort Borussia non offrisse almeno un pertugio? Un mani-comio di Emre Can propiziava il rigore di Mahrez, i guanti di Hitz accarezzavano il sinisto di Foden (20 anni). Su tutti, De Bruyne: per la traversa e per come interpreta il ruolo di tuttocampista. Con l’agente in galera, ha discusso il rinnovo del contratto fornendo i numeri della sua influenza tattica, chiamiamola così. Diavolo di un Kevin, chi mai ne avrebbe dubitato? C’ero arrivato pure io, figuriamoci l’emiro.

A me i piedi, please

Roberto Beccantini13 aprile 2021

Pochettino e Flick non hanno bisogno del sottoscritto per sapere quanto sono bravi. Io, invece, ho bisogno di Neymar. Dei suoi piedi, del suo primo tempo. Ho bisogno che il calcio, ogni tanto, torni un gioco. Pali, traverse, dribbling, grandi parate di Neuer (non più «traditore»): sembrava, Neymar, il bottiglione di champagne che annaffia la Formula 1. E dei tacchi di Di Maria, già che ci siamo: ha cancellato Davies, un giovanotto che nel cuor mi sta. E delle sgommate di Mbappé, erede designato dei due Ronaldi.

Il Paris piomba, così, nelle semifinali di Champions. Ha eliminato i detentori del Bayern, lo squadrone che a Lisbona lo buttò giù dalla gloria a un passo dalla storia: 3-2 a Monaco, 0-1 al Parco dei Principi. C’è chi ha vinto, ma nessuno ha perso: lo insegnavano negli oratori.

Cicale non più in minigonna contro formiche corazzate. La settimana scorsa, il destino si abbatté sul Bayern, lasciandogli tutto (possesso palla, tiri, corner) tranne che il risultato. Questa volta, ha «giocato» con il Paris. Sono caduti in piedi, i tedeschi, riparati da un ombrello, il gol di Choupo-Moting, aperto all’improvviso dopo che, nell’altra area, i mangiatori di schemi avevano rovesciato tuoni, fulmini e saette. La ripresa è stata meno monsonica, e persino Neymar si è fatto brezza. A Roma direbbero: e te credo. A Pochettino sono mancati, nel doppio confronto, fior di titolari, a Flick è mancato un fuoriclasse: Lewandowski. Chissà come sarebbe andata, al di là del dettaglio, non marginale, che il suo vice, Choupo-Moting, ha sempre segnato.

Che duello, fra Dagba e Coman. E quanti recuperi, Paredes. Da Kimmich mi sarei aspettato traiettorie più nette, da Sané cross meno timidi. Ma questa è la cornice. Il quadro è quello, splendido, dipinto nell’arco di una settimana, a una velocità e a una precisione che nei nostri musei ci sogniamo. E poi gli alluci di Neymar. Sorridevano come la Gioconda.

Come «un tempo»

Roberto Beccantini11 aprile 2021

Riuscirà, con questa rosa, la Juventus del nuovo allenatore o del «nuovo» Pirlo a gestire una partita intera? Non si pretende la luna, e nemmeno che tutti i primi tempi combacino con quello odierno, ma neppure che contro il Genoa, che è una buona squadra ma non il Santos di Pelé, soffra come e quanto ha patito fino al 70’. Sino, cioè, al 3-1 improvviso e liberatorio di McKennie.

Questa volta l’ha salvata Szczesny, provvidenziale su Scamacca (già al 45′) e su Pjaca, che l’ha poi graziata dal limite. Era partito, Pirlo, con l’avanti Savoia di incerto galoppo, Kulusevski a destra, Morata, Cristiano, Chiesa a sinistra. Non ci crederete: alla grande. Subito il gol di Kulu, su tocco di Cuadrado, poi il raddoppio di Morata, dopo fuga di Chiesa e palo sbirulo di Cierre. Giocava di squadra, Madama: in pressing, meno a rugby del solito, con la catena di destra (Cuadrado-De Ligt-Kulu) a distribuire calcio.

Punto e a capo, in tutti i sensi. Ballardini ha frustato i suoi, inserito Pjaca e Ghiglione, alzato la testa. Pirlo ha tolto Cuadrado – perché ammonito, immagino – e, in piena burrasca, anche Kulu. Poteva giocarseli diversamente, i cambi? Poteva. Era da richiamare Cristiano, in crisi di astinenza e, per questo, non proprio sereno: la maglia buttata ne sarà fedele e grottesco epilogo.

Ciò spiegato, bisognerebbe raccontare dei troppi errori tecnici: in contropiede, soprattutto. Uno di Chiesa, con Morata a destra e il marziano a sinistra, addirittura madornale. Al posto di Ballardini, non avrei sacrificato Scamacca, autore di un gol non banale: serviva. Non solo: erano appena entrati Dybala e McKennie. E il texano, zac, eccolo scartare, goloso, il pasticcino che Danilo aveva sottratto al dormiente Ghiglione. In attesa che l’Omarino riempia il serbatoio, e detto che il Genoa ha chiuso in dieci, con Zappacosta k.o, il calendario si protende, non meno goloso di McKennie, verso Atalanta-Juventus. Un tempo non basterà.